IN MEMORIA DEL MAGGIORE LESLIE YOUNG FUGGIASCO DAL CAMPO DI DETENZIONE DI FONTANELLATO (Parma).

by Amministratore

Il presente testo è in gran parte tradotto dall’inglese ci scusiamo con i lettori per eventuali imperfezioni linguistiche: ad esempio tutte le distanze sono espresse in miglia. Il testo è lungo ma vi assicuriamo che è una bellissima storia di sentimento che ci aiuta a ritrovare il senso della nostra umanità.
Questo progetto è nato tra i soci di NoiXLucoli Onlus all’indomani del ritrovamento da parte di un nostro socio del volantino di ringraziamento lasciato a Lucoli, vicino al vecchio Municipio, da parte del Presidente dell’Associazione Monte San Martino Trust, Sir Nick Young (figlio del maggiore Young) nel novembre del 2017.
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Il Monte San Martino Trust fu fondato dal Cavaliere al Merito R.I. James Keith Killby – O.B.E.
Il Monte San Martino Trust è una educational charity, cioè un’associazione senza fini di lucro che opera nel campo dell’educazione. E’ regolarmente registrata nell’elenco delle associazioni di volontariato inglesi. Il MSMT è stato fondato a Londra nel 1989 dal sig. Killby per commemorare il grande coraggio e la generosità di tantissimi italiani nei confronti di migliaia di prigionieri di guerra che – alla dichiarazione dell’armistizio del 1943 – fuggirono disperdendosi nelle campagne italiane e che furono sfamati, nascosti e protetti fino alla liberazione d’Italia.
Quando la sera dell’8 settembre 1943 venne annunciato l’armistizio, sul suolo italiano si trovavano circa 80.000 prigionieri alleati, che erano stati catturati nel deserto nord africano.
Erano reclusi in 70 campi ed ospedali militari disseminati su tutta la penisola. L’indecisione del Re e dei comandi militari si ripercosse su tutta la nazione fino ai comandanti dei singoli campi.
Nessuno poteva prevedere gli sviluppi della guerra. Gli alleati che erano sbarcati in Sicilia, avrebbero presto risalito lo stivale e liberato tutti i campi? E che dire dei tedeschi?
In verità giunsero degli ordini, ma questi erano alla fin fine contraddittori e nella confusione dei giorni seguenti, la decisione sul da farsi ricadde, in larga misura, su singoli uomini.
Mentre circa 50.000 prigionieri alleati vennero caricati su treni merci diretti in Germania, in una minoranza di campi si decideva di scappare in massa.
La storia per Lucoli comincia a Servigliano, dove il Capt. John Harold Derek MILLAR, un ufficiale medico, senza tentennare prese su di sé la responsabilità per l’intera evacuazione del campo: era la sera del 14 settembre 1943. Per i duemila uomini reclusi nel campo iniziò una nuova avventura.
Da quel momento in poi si sarebbero trovati a chiedere cibo e protezione ai loro supposti nemici: gli italiani.
Anche se non mancarono casi di delazione alle autorità, che avevano promesso Lire 5.000 a chi consegnava un fuggiasco, è però vero che lo strato più basso della popolazione italiana, cioè la gran massa dei contadini e mezzadri, si fece carico degli ex prigionieri evasi dai campi.
Un contadino di Penna San Giovanni, che faceva parte di una famiglia di 30 persone, ha raccontato: “I prigionieri di guerra alleati usciti dal vicino campo di concentramento di Servigliano si riversarono sulle nostre colline. Malgrado la nostra povertà non mancavamo di aiutare a nascondere questi poveri poco più che ragazzi, in paese straniero, con lingua diversa benché nemici di poco tempo prima. Li nascondevamo nei pagliai o nella macchia, portavamo loro da mangiare e fu diviso con loro … il pane che non c’era! Anche i bambini della famiglia hanno rischiato tanto. Erano loro che portavano da magiare ai fuggiaschi perché insospettabili. Il rischio era forte: fucilazione o davano fuoco alla casa”. (Intervista a Giuseppe Paoletti, rilasciata ad Antonio Millozzi nel marzo 2008).
Chi legge oggi la vastissima diaristica che gli ex-prigionieri hanno lasciato trova in quei diari un filo conduttore: sono le espressioni di gratitudine verso i contadini. Un’altra cosa che colpisce il lettore è il fatto che nei dattiloscritti originali in lingua inglese compare spesso in italiano la parola contadini perché tra questi e i prigionieri in fuga si instaurò immediatamente un rapporto di amicizia tanto che i prigionieri si sentirono in un certo senso adottati dalle famiglie che li ospitavano.
“I contadini erano stati buoni verso di noi; oltre alla loro amicizia, essi avevano veramente poco da offrire. Se noi ci fermavamo presso di loro, temevano per se stessi, ma non ci forzavano ad andar via, promettendo anzi di prendersi cura di noi, di sfamarci e nasconderci dal nemico. Che grande generosità c’è in questo mondo, in mezzo all’odio, alle follie e ai combattimenti.” (Peter Watson, Mountain Highway, dattiloscritto inedito s. d., archivio del Monte San Martino Trust, Londra.)
I dati rilasciati nel dopoguerra dalla Commissione Alleata (Allied Screening Commission) confermano che le regioni dell’Italia centrale furono quelle che dettero maggiore aiuto ai prigionieri in fuga. In particolare, per quanto concerne le Marche, questa regione si trovò ad essere una terra di transito attraversata da migliaia di prigionieri che scendevano dal nord nella speranza di raggiungere le linee alleate. Questi andavano a sommarsi alla popolazioni di prigionieri locali fuoriusciti dai campi di Servigliano, Sforzacosta e Monte Urano. Il maggiore Fosters Hewitt, uno dei responsabili della Commissione Alleata, nel rapporto finale del maggio1947, concluse:  “Una base di solidarietà ed amicizia si è creata ed in particolare con l’enorme massa di contadini. Se questa base sarà tenuta viva o sarà lasciata sgretolarsi è una questione che va al di là dello scopo di questa Commissione. […] La speranza è che questo lavoro che ha realizzato così tanto, non sarà in futuro dimenticato negli scaffali diventando una memoria sbiadita.” (The National Archive, Londra, Cartella WO 208/3397)
La realtà ha dimostrato che le preoccupazioni del maggiore Fosters erano infondate, l’amicizia tra i contadini e i prigionieri è durata al di là di ogni aspettativa. Lo dimostrano le frequenti visite che i prigionieri hanno fatto nel dopoguerra. Quando loro non sono più potuti venire a causa dell’età avanzata, allora sono venuti i figli e i nipoti a dire grazie.
CAPITANO MILLAR, John Harold Derek (98370). R.A.M.C. (Royal Army Medical Corp) affiancato alla 19° ambulanza da campo della 4° Divisione.
Il Capt MILLAR fu catturato ad ovest di ACROME (Nord Africa) l’11 dicembre 1941, poi tradotto via DERNA a BENGASI e via mare a BARI, per essere infine internato nel campo PG 59 di SERVIGLIANO. In questo campo il Capt MILLAR esercitò la sua professione di medico.
Dopo l’armistizio, su suggerimento del sottufficiale responsabile dei prigionieri HEGGARTY e in pieno accordo con gli altri ufficiali, il Capt MILLAR assunse il comando del campo. Si adoperò quindi per organizzare la fuga dei prigionieri. Diede ordine ai suoi uomini di dividersi in piccoli gruppi guidati da un leader. Il Capt MILLAR diede inoltre l’ordine di distribuire il contenuto dei pacchi della Croce Rossa insieme al vestiario e agli stivali in giacenza. Completare queste operazioni, il Capt MILLAR si procurò una mappa e ordinò ai sottufficiali del campo di fare quante più copio possibili. Nel frattempo organizzò eventi sportivi e concerti per tenere i prigionieri occupati.
Quando si seppe che i tedeschi erano vicini, la fuga fu condotta come stabilito in precedenza. Nel campo furono lasciati solo i prigionieri malati. L’Ufficiale medico Capt ROSSI, che era un buon dottore, promise di prendersi cura di loro.
Il Capt MILLAR fu tra gli ultimi ad abbondare il campo e raggiunse le linee alleate il 19 novembre 1943. Il Capt medico MILLAR gestì la situazione venutasi a creare nel campo di Servigliano, dopo l’armistizio, in maniera esemplare. (The National Archive, Londra, file 373/63 p. 391. Motivazione per l’assegnazione al Capt medico MILLAR di un M.B.E. – member of the British Empire – onorificenza data dallo Stato Inglese per alti meriti civili o militari).  
A Monte San Martino, in provincia di Macerata, risiede il Comitato Italiano gestito e organizzato dal prof. Antonio Millozzi. Sorgono spontanee alcune domande: perché il piccolo paese di Monte San Martino in provincia di Macerata ha dato il nome alla fondazione? Fu in contrada Barchetta di Monte San Martino che il sig. Killby vide:
“A fairly eldery woman came out of her house with a cooking pot over her head, she waded the river on her bare feet and climbed the hill to us”. L’anziana signora si chiamava Maria Livi, e Killby e i suoi compagni di fuga non avrebbero mai dimenticato quel suo gesto di carità spontanea. Il sig. Killby promise che sarebbe tornato dopo la guerra a ringraziarla e così fece negli anni 60. Tornò e ringraziò tutti gli abitanti di contrada Barchetta.
IL SAN MARTINO TRUST E LUCOLI

Il Maggiore Leslie Young sostò a Lucoli per una notte. 
Nel 2017 il figlio del maggiore, Sir Nick Young, ha ripercorso in un viaggio sentimentale tutte le tappe della fuga di suo padre dal campo di Fontanellato verso Anzio. A Lucoli sono comparsi dei manifestini da lui affissi con l’immagine di suo padre e con un testo in cui si rendeva grazie alla popolazione. Ci siamo incuriositi e lo abbiamo contattato, ci siamo documentati ed è nato questo dossier.
Dal diario di viaggio realizzato in Italia nel 2017 del figlio di Leslie Young: “A Lucoli, un altro villaggio per lo più deserto che si annidava pittorescamente sul fianco della collina, la notte dopo trovarono un “alloggio ragionevole”, papà soffriva del  dolore al calcagno. Poi, al mattino, iniziarono una spaventosa scalata e oltre la desolata vetta di 6.000 piedi del Monte Cava che si stendeva tra loro e il villaggio di Corvaro verso il quale si stavano dirigendo, il loro percorso ora li impegnava leggermente a sud ovest, mentre speravano in una nuova notizia di un altro sbarco alleato a nord di Napoli prima dell’inverno”.

Nick e sua moglie Helen Young nel 2017 hanno ripercorso la fuga di Leslie Young, dal campo PoW di Fontanellato, vicino a Parma, dopo l’Armistizio con l’Italia l’8 settembre 1943. Il loro viaggio, intrapreso nell’autunno del 2017 è stato compiuto in tre fasi. Il volantino che segue è stato affisso a Lucoli.
Abbiamo tradotto il diario di viaggio compiuto dal Presidente del Monte San Martino Trust: Sir Nick Young nei luoghi dove suo padre si nascose fuggendo e il testo che segue ne costituisce un estratto. 
Volevamo rivivere come lui l’atmosfera dei tempi passati e della fuga.

Dal diario di viaggio di Nick Young

Settantaquattro anni e dieci giorni dopo l’armistizio italiano del 1943, Nick Young si reca a Fontanellato con la moglie Helen, per seguire la via di fuga del padre per ben 400 miglia fuggendo dal campo PG49 fino ad Anzio, appena a sud di Roma. Il padre fuggi a piedi il loro viaggio si è svolto naturalmente in macchina.
Il campo di prigionia, che era un imponente orfanotrofio prima della guerra, è ora una clinica specializzata per problemi neurologici, oggi è rimasto praticamente invariato, proprio sul lato orientale della città e affacciato su campi aperti. L’area sul retro del campo, dove i PoW giocavano a calcio e facevano esercizio fisico, è ancora circondata da una recinzione metallica – forse ancora la stessa recinzione metallica che quasi 600 prigionieri hanno superato incolonnati, subito dopo l’armistizio, salutando il colonnello Hugo de Burgh (l’alto ufficiale britannico).
Poi visitiamo la vicina Chiesa della Madonna del Rosario: le suore qui facevano il bucato dei prigionieri e facevano delle commissioni per loro in città. Nella chiesa, poniamo il primo di molti avvisi sulla fuga di mio padre che intendiamo mettere in ogni villaggio che ha attraversato. L’avviso, con una foto di mio padre, racconta la storia della sua fuga,  racconta qualcosa del Monte San Martino Trust – e soprattutto porge un ringraziamento alla gente del posto che lo ha aiutato quando era “in fuga”.
Dopo pranzo in un caffè locale – ottimo prosciutto di Parma e deliziosi ravioli – siamo partiti per il letto del torrente prosciugato, noto come Bund, vicino alla frazione di Paroletta, dove i prigionieri si sono nascosti dopo la fuga, cercando di capire cosa avevano fatto. Mio padre partì poco prima dell’alba quattro giorni dopo con un pilota della RAF chiamato Reg Dickinson, diretto a sud-ovest.
Finimmo il primo giorno per la prima sosta notturna di papà, a Banzola, a circa quattordici miglia da Fontanellato, ai piedi degli Appennini. Un attimo, eravamo in una zona pianeggiante, e ci chiedevamo come avrebbero potuto nascondersi 600 uomini nella campagna aperta e vuota. Pochi minuti dopo, eravamo improvvisamente sulle colline, pendii boscosi o campi scoscesi che salivano ripidamente su entrambi i lati della strada. Ormai pioveva, e l’aria di settembre era fresca, la campagna rigogliosa e verde. Molti dei campi erano già stati grossolanamente arati; in altri, gli steli marroni essiccati del mais raccolto attendevano il loro turno per l’aratro. Le viti sono pesanti con l’uva. Le fattorie mostrano pochi segni di modernizzazione, alcune sono chiaramente deserte. Sembra tutto come doveva essere stato settantaquattro anni fa.
Ci fermiamo in una radura, guardando verso la chiesa nella piccola Banzola. Alla nostra sinistra c’è la collina dove mio padre deve aver inciampato, stanco come un cane alla fine della sua prima lunga giornata di vera libertà. Il villaggio è abbastanza silenzioso e ancora nel tardo pomeriggio. Parliamo sussurrando cercando di rivivere quella prima notte mentre i due fuggitivi cercavano di decidere a quale porta bussare.
Secondo giorno: pioveva a dirotto mentre ci mettevamo in macchina per percorrere le quindici miglia da Banzola a Vianino, lungo strade strette che si inerpicavano su e giù per le ondulate colline rurali all’inizio della catena appenninica. Con le soste per le foto e per controllare la mappa, ci siamo sentiti come se avessimo guidato per ore quando siamo arrivati ​​a destinazione. Dev’essere stata una passeggiata molto estenuante per i militari che partirono da Banzola al chiaro di luna alle 3 del mattino e non arrivarono a Vianino che a tarda sera.
Il paese, con le sue case alte e piuttosto scarne, e il suo memoriale di un massacro nazista di partigiani locali nel luglio del 1944, sembrava deserto e triste nella costante pioggerellina. Ma il ristorante locale era abbastanza affollato e serviva un delizioso tortello con spinaci e zucca – e quando finimmo di pranzare, il sole splendeva. La prossima fermata, attraverso il fiume Ceno era il piccolo borgo di Specchio, arroccato su una ripida collina con magnifiche vedute di valli soleggiate e colline rocciose in tutte le direzioni.
Sapevo che mio padre era rimasto nel granaio di una “grande casa dall’aspetto prosperoso con un arco che portava a un cortile lastricato”: ed eccolo lì, inconfondibile e immutato in settantaquattro anni (fino al giorno stesso). Aveva incontrato amici del PoW quella sera, e tutte le ragazze del posto erano venute a vedere i “prigionieri Inglesi”: c’era stata una bella festa, e dopo le ragazze, mentre tornavano a casa, si fermarono a cantare un’Ave Maria al santuario vicino. Il santuario è ancora lì, a pochi metri dall’antica porta del granaio. Tre chilometri più in giù su una strada in gran parte senza ostacoli c’era Castelcorniglio, un’imponente e ormai decadente residenza che guardava imperiosa attraverso una valle boscosa. Dopo una notte che dormiva nel bosco perché c’erano soldati tedeschi in giro, papà trovò una buona billetta in una fattoria vicina: si fece riparare i pantaloni e ricevette una lezione di italiano dal simpatico contadino. Entrambe le fattorie e il castello erano inaccessibili, ma abbiamo inchiodato il nostro avviso di ringraziamento a un albero vicino alla strada e proseguendo per altri dieci chilometri di vallate rocciose bagnate dalla luce del sole autunnale fino a Valmozzola. Mentre cercavamo una tazza di tè, trovammo un caffè fumoso dove due signore grandi e proibitive riempirono una pentola per noi, ci diedero due enormi pezzi di limone per accompagnarlo – e poi felicemente acconsentirono di appuntare la nostra attenzione accanto a un’immagine che commemorava il uomini coraggiosi della brigata partigiana locale.
Terzo giorno: per tutta la giornata, ci siamo trovati nel bel mezzo di uno scenario alpino incredibilmente bello, con a malapena un’altra macchina in vista – l’Alpe de Succiso. Vette da 5.000 a 6.000 piedi divennero quasi un luogo comune mentre andavamo su e giù per le colline e le valli, sotto il sole abbagliante. Poiane volavano in aria di fronte a noi; i pastori pascolavano le loro greggi sottostanti; un mulo barcollò sotto un carico di legna; quando ci fermammo per un picnic di parmigiano e arance, solo il tintinnio delle campanelle delle mucche e lo scrosciare di un ruscello disturbarono la quiete.
Mio padre, era preoccupato della loro lentezza e aveva la sensazione che il suo compagno di fuga desiderasse andare lentamente nella speranza che gli aiuti arrivassero dal sud, leggiamo nel suo diario: “Grande giornata Questa! Finalmente siamo riusciti a spostarci verso sud e oggi abbiamo fatto buoni progressi. Dieci miglia al giorno, almeno per salite e discese ripide. Corniglio aveva l’aria compiaciuta di una stazione sciistica che contemplava una stagione frenetica in anticipo, i locali si crogiolavano sotto il caldo sole di mezzogiorno nella piazza principale”. Montebello, nascosto in una valle stretta, ricordò a mio padre Clovelly, le sue sette case adagiate sotto una roccia alta.
Il paese di Miscoso, era deserto alle tre del pomeriggio, trovammo la vita nel caffè locale e mescolammo il pranzo con il tè e finimmo con la cena. Ultima  e migliore di tutte le tappe, Valbona che ci ha impegnato per due ore con indicazioni fuorvianti, strade che finivano in tracce, nuove strade non ancora sulla mappa, e con solo la meraviglia di stupende vedute e magnifica solitudine. Ma alla fine abbiamo trovato il paese, grazie all’impegno vittorioso di Heli con un recalcitrante navigatore satellitare. Il paese si annidava in una profonda gola, aveva una singola torre tozza sospesa sopra un paese fatto di semplici case e piccoli fienili.
Mentre affiggevamo il nostro messaggio di ringraziamento alla porta della Torre e ci dirigevamo a nord, provammo a immaginare questo scenario sotto la pioggia – come mio padre l’aveva visto. Qui ha incontrato un disertore dell’Esercito Italiano, che si è offerto di mostrare loro un buon percorso il giorno seguente – solo per scappare prima dell’alba con il prezioso temperino di Papà e gli stivali migliori della padrona di casa!
Quarto giorno: abbiamo superato il paese di Casalino la scorsa notte perché si stava facendo buio e il percorso sembrava difficile. Stamattina, appannati dai tortelli di carne d’asino della scorsa notte e dal vino rosso “frizzante”, siamo stati provati di nuovo da chilometri di tunnel stradali nuovi di zecca, che non esistevano né sulla mappa né sul navigatore satellitare. Così arrivammo al minuscolo Cervarolo: un gruppo di casette in pietra stipate all’estremità di un sentiero stretto.
Tutto era immobile e silenzioso … poi lo vedemmo, il memoriale su un muro che elencava i ventiquattro uomini di questa piccola comunità, assassinati da “infami nazifascisti” il 20 marzo 1944. Il più anziano aveva 76 anni, il più giovane solo 17 anni. Nelle vicinanze, una piccola stalla di pietra era stata trasformata in un santuario per gli uomini, in un eterno saluto alla pace (“in sempiterno augurio di pace”), ai figli e alle figlie di Cervarolo, i cui indifesi padri (“inermi padri”) erano stati trucidati. Il santuario era stato pagato da una compagnia teatrale di Berlino nel 1987.
È stato difficile lasciare Cervarolo. Papà era stanco quando arrivò lì, il 3 ottobre 1943, dopo un cammino di dodici miglia su e giù per quattro valli e circa tre picchi di 5.000 piedi. Qualcuno a Cervarolo quella notte gli ha dato un buon pasto, un letto e un taglio di capelli. Abbiamo pregato che chiunque fosse stato non avesse dovuto pagare con la sua vita, sei mesi dopo, per aver sostenuto la causa alleata.
Dopo la profonda tristezza di Cervarolo, Gazzano, il paese successivo è stato un po’ uno shock. Il terreno intorno prosperoso e attorno a un lago per nuotare e andare in barca. Papà dormì qui in un granaio con un francese, un russo e un sudafricano. Abbiamo mangiato tranquillamente il nostro picnic e abbiamo deciso di fare un po’ di passeggiata.
In tutta Italia, la rete nazionale di sentieri escursionistici riconosciuti e antiche carrozze è denotata con una striscia di vernice rossa e bianca, squarciata su qualsiasi albero o palo utile. Questi sentieri si snodano attraverso i meandri dell’autostrada, seguendo una traiettoria di volo di corvo da un villaggio all’altro, la ripidità del sentiero era superata dalle gambe di contadini piccole e robuste. Siamo andati su uno di questi percorsi, e dopo un po’ abbiamo trovato una indicazione che puntava in direzione di Cervarolo. Ci siamo fermati, fulminati: questo dev’essere stato il sentiero percorso da papà e reg Dickinson 74 anni fa!
I due paesi successivi, il Sasso Tignoso e il Sassostorno, erano entrambi arroccati su ripide montagne, ben al di sopra della linea degli alberi. Il primo sembrava consistere solo in una piccola cappella; il secondo (dove papà ha avuto un incontro spiacevolmente ravvicinato con una macchina dei soldati tedeschi) era dalla parte sbagliata di una piccola frana e diversi cumuli di roccia! Vesale era come un piccolo villaggio sciistico austriaco, con una chiesa su una roccia, bei pavimenti lastricati e la Locanda Zita in una piccola piazzetta. Abbiamo lasciato il nostro “grazie” al banco (cercando di dimenticare il commento di nostro figlio che diceva che il volantino sembrava piuttosto un avviso di quelli tipo “Wanted”!). Subito siamo entrati al centro dell’attenzione del personale della locanda dei parenti e degli amici che sono stati chiamati per guardalo meravigliati e facendoci una raffica di domande completamente incomprensibili!
In qualche modo siamo riusciti ad andare via, nonostante le richieste di restare per un drink, la cena, la notte e probabilmente diverse settimane dopo, e siamo partiti per la nostra ultima tappa nell’oscurità raccontata: Montespecchio, su una collina nel mezzo di un’ampia valle circondata da montagne. Papà restò in questo luogo per diversi giorni di piogge torrenziali, ma godette del lusso di un uovo fresco a colazione e riuscì a disegnare una mappa con l’aiuto di un militare dei Caribinieri locali. Riuscì perfino a ripararsi gli stivali. Non abbiamo avuto tempo per questi piaceri e siamo partiti per il lungo viaggio di ritorno verso la nostra prossima base, Bologna.
Quinto giorno: dopo quattro giorni di guida di circa dieci ore al giorno, ci siamo concessi una pausa nella città di Bologna, raffinata e colta, ieri. “Hic Manebimus Optime” è il motto del nostro hotel! Passeggiando tra i portici ombrosi della città, ci siamo imbattuti in una meravigliosa mostra di fotografie dei Beatles nei loro primi giorni ad Amburgo, scattata dalla fotografa tedesca Astrid Kirchherr. Love me Do e Yesterday hanno suonato in sottofondo e siamo stati trasportati indietro in tempi felici.
Il pranzo e il vino locale hanno aiutato il processo di ripresa e oggi siamo tornati sulla strada, diretti a sud a Pieve di Cassio, una piccola chiesa con tre casupole abbandonate rannicchiate intorno ad essa. “Un accampamento molto povero” era il commento di papà e dovevamo essere d’accordo. Vicino c’era il ponte di Verzuno sul fiume Reno. Ci siamo fermati in un piccolo “Alimentari” per comprare qualche formaggio e prosciutto locale per il nostro picnic. L’affascinante Luana, la proprietaria, si avventò sul nostro biglietto di ringraziamento con entusiasmo, e rapidamente il negozio divenne pieno di clienti all’ora di pranzo mentre raccontava la sua versione della storia di papà.
Salimmo sulla collina fino al villaggio vero e proprio, ci sistemammo in un luogo con attorno un campo di cipressi, appena arato, e presto avemmo compagnia. Per primo Giorgio, un anziano contadino sul suo carretto meccanizzato a tre ruote; poi Armando, davanti al cui fienile eravamo seduti. A loro venne l’idea che fossimo tedeschi, e si precipitò a prendere Gloria che era sposata con un tedesco. Fortunatamente, parlava un buon inglese, quindi siamo stati in grado di risolvere il problema, e poi ci siamo divertiti molto con lei e il suo compagno Michael, restauratore di mobili da Monaco, a rimettere il mondo a posto.
Come tanti dei paesi che abbiamo visitato, Verzuno sembrava prospero, con case dall’aspetto benestante e giardini ben curati. In realtà, abbiamo capito che lo stile di vita contadino di sussistenza autosufficiente in quei luoghi è quasi del tutto scomparso, ed è stato rimpiazzato principalmente dai fine settimana con i soldi delle città o delle case di campagna.
Sulla strada per Montefredente, sotto una pioggia torrenziale, papà dovette attraversare una strada principale nord/sud e la linea ferroviaria tra Bologna e Firenze – “uno dei nostri ostacoli più difficili” fu il suo commento. All’inizio di ottobre del 1943, i tedeschi stavano arretrando e, proprio in questa zona, costruivano la linea gotica, una delle varie posizioni di difesa est/ovest contro l’avanzata alleata a nord. A quel punto, anche in ogni paese erano state pubblicate segnalazioni, che minacciavano la prigione, o peggio, per chiunque avesse aiutato gli alleati.
Papà e Reg Dickinson prendevano il tè a Montefredente (ora piuttosto suburbano e in pianura) con alcuni rifugiati bolognesi, presumibilmente in fuga dai bombardamenti alleati – o forse ebrei, timorosi dei tedeschi occupanti – ma era un altro accampamento umido e insoddisfacente. Si risollevarono il giorno successivo, il loro primo in Toscana, quando arrivarono a Peglio, 3.000 piedi di altitudine con molto freddo, ma trovarono “un ottimo ricovero e arrostirono le castagne intorno al fuoco dopo cena”.
A Peglio, passammo davanti a un museo dedicato alla linea gotica, chiuso quel giorno, ma che ospitava nel giardino una serie di fucili e mortai, un groviglio di filo spinato e alcuni avvisi autentici che annunciavano “Strada minata” o  “Artiglieria pesante lungo la strada”. In fondo alla strada ci fu un ricordo molto più potente – il cupo cimitero di guerra tedesco del Futa Pass, con oltre 30.800 semplici lapidi, molti dei quali recanti solo la scritta “Ein Unbekannter Deutscher Soldat”. Tornammo di corsa lungo l’autostrada per Bologna.
Sesto giorno (24 settembre): Abbiamo iniziato la giornata in una piccola città chiamata Marzabotto, poche miglia a sud di Bologna, dove 770 persone locali provenienti dai villaggi circostanti furono massacrate dalle SS nell’ottobre del 1944 – punizione per il sostegno locale ai partigiani. Le vittime, le cui età andavano da pochi giorni a più di 80 anni, non hanno tombe perché i loro corpi sono stati gettati in una fossa e poi fatti saltare in aria. In una cripta moderna sotto la chiesa locale, c’è comunque una pietra commemorativa scolpita per ogni vittima; fuori, ci sono fotografie inquietanti di coloro che sono morti e messaggi dalle scene di altri omicidi di massa da tutto il mondo.
Mentre ci allontanavamo pensierosi, iniziò a piovere – pioggia autunnale profonda e umida dello stesso tipo sopportato, per giorni e giorni, da mio padre e da molti altri fuggitivi nel 1943. La temperatura calò di parecchi gradi. Proprio come mio padre aveva fatto il 14 ottobre 1943, abbiamo percorso strade di montagna e canyon rocciosi ora inondati di acqua che scendeva dalle colline, e abbiamo trovato la nostra strada seguendo una tortuosa pista fino a Mantigno. Se mai esistesse un modello per un “Cold Comfort Farm” (Fredda fattoria confortevole) sarebbe stato così! Incontrammo un contadino che caricava i tronchi su un trattore in un cortile zeppo di attrezzature arrugginite che ci ignorò, così ci accontentammo di un colpo di fortuna tra la nebbia e la pioggia e riuscimmo ad affiggere l’immagine di papà e il biglietto di ringraziamento sulla porta di una chiesa abbandonata – e ce ne andammo.
La nostra prossima fermata, di nuovo alla fine di una lunga e tortuosa strada attraverso pini gocciolanti e nuvole grigie appese – “un percorso difficile ancora una volta: montagne molto ripide”, come ha commentato mio padre nel suo diario scarabocchiato – era Albero, una trentina di miglia da Mantova su strada, forse la metà della distanza su pista di montagna. Questa volta la strada era stata appena costruita con un asfalto liscio e nero, quindi non vedevamo l’ora di ricevere un benvenuto più caloroso di qualsiasi tipo. Ma no, ci trovammo in luogo chiamato Maria Celeste, con un cupo gruppo di case grigie all’estremità di un vialetto contrassegnato con “Privato” in lettere piuttosto grandi ed enfatiche. Ci siamo avventurati in avanti, pronti per andarcene velocemente, attaccando furtivamente il nostro avviso alla porta della ex chiesa, ora chiaramente usata come un granaio.
Questo episodio un po’ inquietante ci ha fornito alcune indicazioni su come deve essere stato per i fuggitivi mentre si avvicinavano a una casupola desolata alla fine di una lunga e umida giornata di marcia in montagna – infreddoliti, affamati e impauriti, con poco da guardare avanti a parte, nel migliore dei casi, un fienile umido e alcuni poveri avanzi da mangiare. Il paese di Albero era stato più gentile, meno male, per papà, meglio di quanto non fosse per noi, visto che nel suo diario riportava che vi trovò un “buon alloggio e un brodo di pollo.”
Con un po’ di sollievo, siamo partiti per San Benedetto in Alpe, la nostra ultima tappa in questo primo viaggio lungo la via di fuga di mio padre. Il paese è una prospera località alpina, ancora molto silenziosa e apparentemente deserta in questo pomeriggio di domenica bagnata, ma molto più stabile e confortevole delle nostre due soste precedenti. Sulla strada per San Benedetto, papà e reg Dickinson incontrarono un gruppo di partigiani e furono invitati nel loro nascondiglio per la notte.
Qui incontrarono un allegro neozelandese chiamato Charlie Gatenby, che era riuscito a fuggire dal campo di Modena dopo che era stato lasciato dai tedeschi, nascosto in un carretto della spazzatura. Comportandosi come un vagabondo, si era incamminato verso sud da solo ed era stato catturato dai partigiani una o due notti prima. Lo avevano intrattenuto con copiose ubriacature di vini locali, e racconti dei loro attacchi omicidi contro i vicini fascisti – ed erano molto contenti che tutti e tre i soldati si sarebbero dovuti unire al loro gruppo. Possiamo solo immaginare i tre che si scambiano sguardi e poi fare le loro scuse mentre si allontanano rapidamente dalla grotta! A papà piacque subito Charlie: “Ora abbiamo un neozelandese che viaggia con noi. Lui è bravo. Pessima cosa”.
Anche se a quel tempo non lo sapeva, l’incontro avrebbe dovuto cambiare drasticamente il corso degli eventi.
E questo è tutto per ora! Grazie mille per aver letto questo blog. Heli e io siamo fuori casa ora, ma riprenderemo il Blog il 16 ottobre, per la prossima tappa dello straordinario viaggio di mio padre e speriamo che vi unirete a noi per la prossima puntata.
PS: successo! Ho avuto una risposta a uno degli avvisi che ho segnalato ringraziando la gente del posto per aver aiutato mio padre e aver parlato del Monte San Martino Trust. Roberto Parrochetti di Vesale (giorno 4) sta scrivendo un libro sulla storia della zona e vorrebbe includere una o due righe su papà.
Settimo giorno.
Quando il neozelandese Charlie Gatenby incontrò mio padre e il suo compagno di fuga, l’ufficiale della RAF Reg Dickinson, a San Benedetto in Alpe, sabato 16 ottobre 1943, era già in fuga da tre settimane. Era fuggito dall’ospedale della prigione di Modena, nascosto in un carretto della spazzatura dopo che il campo era stato preso in consegna dai tedeschi, e si era diretto a sud con una grave ferita alla gamba e con solo un paio di scarpe da ginnastica in piedi.
Gatenby e papà si comprendevano erano spiriti affini e i loro discorsi si concentrarono rapidamente sul modo migliore per fare progressi più rapidi nella fuga verso il sud. Papà e Reg avevano camminato insieme per una sessantina di chilometri da quando avevano lasciato Fontanellato, muovendosi di giorno, tenendosi ai margini delle montagne, e mirando a dormire ogni notte in un posto diverso. Erano andati avanti nonostante giorni di piogge torrenziali, ma i loro progressi verso sud erano stati lenti, e papà mostrava segni di impazienza. Iniziò rapidamente ad apprezzare l’atteggiamento vigoroso ed energico di Gatenby a riguardo del ritorno a casa. L’inverno si avvicinava e ogni giorno sembravano esserci più tedeschi. Il tempo stava passando.
Dopo aver passato un paio di giorni a ripararsi dalla pioggia in una grotta, in compagnia di una banda piuttosto violenta di partigiani, i tre furono felici di essere di nuovo in movimento, fortificati da un tacchino rubato, cotto sul fuoco la sera prima.
La loro prima sosta come un trio, sotto una pioggia battente, fu a Castel dell ‘Alpi, una piccola frazione di quattro piccole case di pietra e una chiesa, a metà strada su una montagna in una radura nella faggeta.
Mentre risalivamo 74 anni dopo dalla città murata di Città di Castello, a circa 45 miglia a sud, il sole autunnale brillava luminoso e caldo. Abbiamo navigato lungo le splendide vallate fluviali, attraverso vere cattedrali di faggi che ombreggiano la strada, passato campi ben arati, e arazzi sulle colline nei toni del giallo, marrone e verde.
Papà è stato morso da un cane a Castel dell’Alpi, e ha dovuto accontentarsi di una povero ricovero di paglia con gli animali. Noi siamo stati più fortunati mangiando  una pasta eccellente nella vicina Cornolio, in compagnia di un generoso proprietario e di un motociclista di una Ducati in pelle, entrambi molto interessati alla nostra storia. Ma quella fu la fine della nostra buona fortuna per quel giorno. I prossimi tre paesi sull’itinerario di papà erano Celle, San Paolo in Alpe e La Lama. Oh sì, disse il Padrone – sono appena sopra quella collina laggiù.
Be’, potrebbe essere stato così, ma dopo cinque ore di guida su piste strette, polverose e craterizzate, spesso aggrappate alla parete rocciosa da un lato mentre le voragini si aprivano sull’altro, non ne avevamo ancora trovato uno.
Celle sembrava essere in fondo a una profonda e oscura valle – così profonda che perdendo il coraggio, abbiamo fatto una virata di nove punti con un angolo di 45 gradi e abbiamo iniziato a dirigerci verso la cima.
San Paolo, per contrasto, era in cima a un picco di 3.000 piedi. Più polvere, più buche, un’altra virata in nove punti, quando dal nulla tre macchine sono venute ruggendo lungo la pista verso di noi. Sono riuscito a fermare la terza chiedendo la strada verso San Paulo, La Lama. “Tu Tedeschi?” Risposero, sospettosi. “No, Inglesi”, dissi, sperando che fosse la risposta giusta. “Oh sì”, dissero, “la strada sta bene”. Un’ora dopo, ci fermiamo di fronte a un cancello chiuso dall’altra parte della strada. Un altro giro di nove punti – forse avrei dovuto dire che eravamo Tedeschi, dopotutto?
Infine, La Lama, situato idillicamente ai piedi di un lago alpino secondo la mappa. Questo era un paese di montagna del Parco Nazionale: spesso sopra la linea degli alberi, enormi panorami in ogni direzione, sole che tramontava, cervi che saltavano sul nostro cammino. Più grandi buche, ancora più polvere. Eravamo delusi? Oh sì, lo eravamo, mentre fissavamo increduli un altro cancello chiuso dall’altra parte della strada.
Ci consolammo con il pensiero che a sole due ore di distanza c’era un appartamento caldo e una bottiglia di buon vino rosso.
Per coincidenza, le Alpi di San Benedetto non hanno rappresentato neanche la sosta più bella di mio padre. Inzuppato come al solito, si perse sulla strada per Celle, e litigò con Reg Dickinson quando arrivò; ha faticato per dieci ore sulla lunga salita verso San Paolo, ha avuto diverse ansie con i tedeschi in arrivo, e si infuriò sapendo che Reg aveva perso la loro cartina del Touring Club; e poi si separò dagli altri sulla strada per La Lama e dovette trascorrere una notte da solo sul fianco della montagna.
Forse domani andrà meglio? Non scommetterci, lo sento dire!
Ottavo giorno. Tutto ciò che avevamo era il nome di una collina – Colle Nella – ma trovammo il luogo, segnato su una mappa dell’escursionista a 780 metri, e lì in cima c’era una casa malandata, con tre villette a schiera e un forte odore di grandi mucche chianine bianche che sono così comuni da queste parti.
Una signora anziana ha camminato fuori barcollando per vedere cosa stavamo facendo, e ha studiato una o due righe della lettera di “ringraziamento” che lasciavamo ovunque andavamo. “Sono venuto qui solo cinquanta anni fa”, ha detto, “ma ho sentito le storie locali della brutta guerra”. Mio padre annotò nel suo diario che gli era stato dato un buon pranzo qui e dieci sigarette, ma che il padrone di casa le mise poi sulla strada sbagliata – le piccole cose che significano tanto a volte.
Era un altro giorno d’autunno perfetto, e la vista dalla collina, dei campi patchwork e delle foglie che giravano, ci spingevano a fermarci. Ma proseguimmo e arrivammo immediatamente a un paesaggio ultraterreno di alberi rachitici e scogliere di cemento levigato: le Montagne della Luna (Alpe di Luna). Presto, ritornammo su una strada sterrata, assistendo la macchina su crepacci sconvolgenti e rocce pesanti a 5 mph. La linea di difesa gotica tedesca scorreva qui e una o due postazioni di cannoni sono ancora visibili.
L’ora di pranzo arrivò prima che lasciassimo il paesaggio lunare e scendemmo in una graziosa valle dove trovammo un caffè sulla grandiosa piazza di Mercatello sul Metauro. Una giovane suora nutrì i gatti fuori dal vicino convento, offrendoci un timido sorriso prima di chiudere silenziosamente la porta dietro di lei.
Poi alla piccola Guinza, appollaiata sopra un’altra incantevole valle, dove sedevamo accanto a casolari in rovina, tutti ormai deserti. Non c’era traccia della “buona fattoria” dove papà aveva trovato un letto per la notte, ma doveva essere difficile spostarsi il giorno dopo da un posto così tranquillo. Ancora una volta, mi sono ritrovato a chiedermi perché non ha mai ricordato il lungo viaggio che fece attraverso questi maestosi paesaggi.
Bocca Seriola si rivelò essere un grande caffè, molto frequentato dai motociclisti, in una piccola radura tra querce e faggi. Abbiamo appeso un avviso e siamo andati a fare una breve passeggiata, tornando ad incontrare un piccolo gruppo di persone che ne parlava. Abbiamo detto alla padrona di casa che il suo predecessore aveva dato a papà una mappa e un buon pasto. Sorrise tranquillamente a se stessa, come per dire “sì, è quello che facciamo” prima di tornare al suo libro, sulla “guerra al terrore”. “Niente cambia,” disse, scuotendo la testa.
La tappa finale della giornata era una città dalla cinta gialla color ocra, posta imponentemente alta su una collina sopra un’ampia pianura. Pietralunga ha subito danni in un recente terremoto e la chiesa ora non è sicura ed è salito a bordo.
 Abbiamo trovato un simpatico sacerdote locale, che ha sorriso e letto attentamente la nostra lettera di ringraziamento, promettendo di pubblicarla nella sua prossima newsletter di Facebook. Sembrava che volesse invitarci, ma non sapevamo come, quindi ha chiesto se fossimo anglicani. Non osavamo dirgli che mio padre rubava una mappa del suo predecessore!
Nono giorno. Dopo una partenza anticipata, abbiamo fatto colazione nella stupefacente città murata di Gubbio, con il suo magnifico palazzo color crema che domina la valle sottostante.
Sopra la città c’è una fattoria su una collina chiamata Madonna della Cima – Madonna del Vertice. Papà passò la notte qui, il 26 ottobre 1943, sotto la pioggia, come al solito. Ci fermammo sotto il sole splendente nel grazioso santuario dedicato alla Madonna. “Oh passer by”, leggi l’iscrizione, “metti in pausa e saluta Maria, che renderà la strada sicura per te.” Era un posto adorabile, ed entrambi avevamo un forte senso della presenza di mio padre.
La stessa fattoria oggi è una grande impresa, con enormi capannoni di metallo per il bestiame e macchinari agricoli. Bussammo alla porta e consegnammo la nostra lettera alla padrona di casa: ci furono alcuni momenti di incomprensione ansiosa, e poi un cenno e un sorriso di riconoscimento. Ci ha invitato a prendere un caffè, proprio come il suo predecessore doveva aver fatto settantaquattro anni fa per tre ex-PoW.
Poi ci trovammo a dodici miglia di macchina, giù per una valle spalancata, fino alla misera città industriale di Sigillo. Gli autocarri percossero la strada principale, scuotendo le fondamenta del municipio dall’aspetto importante, dove abbiamo attaccato piuttosto sfacciatamente la nostra lettera su un tabellone pubblico. Questa città ebbe un ruolo chiave nel viaggio di papà perché fu qui, dopo un altro giorno triste sotto la pioggia, sulla strada rocciosa di montagna, che Gatenby ammise che, con la gamba ferita e le scarpe da ginnastica, trovava molte difficoltà. Suggerì che avrebbero dovuto correre un rischio di utilizzare delle strade, per fare più chilometri. Papà era d’accordo, ma Dickinson era contrario – così i tre decisero di separarsi, con papà e Gatenby che lasciarono Reg per fare a modo suo al suo ritmo. Una decisione difficile.
Con la Serra Santa di 6.000 piedi che torreggia sulla nostra destra, siamo arrivati ​​al Belvedere, un bel gruppo di casette color pastello circondate da pendii erbosi. Ma sembrava un po’ troppo curato, e alcune nostre ricerche online ci hanno rivelato che il posto era stato devastato da un terremoto nel 1997. Le case di legno temporanee utilizzate dagli abitanti del paese mentre le loro case venivano ricostruite sono ancora raggruppate in modo piuttosto casuale a un’estremità del villaggio. Papà alloggiò alla scuola della chiesa, evidentemente oggi distrutta dal terremoto, e una famiglia locale “ha pianto quando siamo partiti”.
Infine, giù per una valle lunga e prospera fino a Bagnara, abitato piuttosto borghese. Papà e Charlie Gatenby erano di buon umore quando arrivarono qui, dopo aver percorso 30 miglia a sud nei due giorni da quando si erano separati con Reg. Hanno trovato un “buon campo” e sono stati in grado di ascoltare la BBC. Papà pensava ai suoi genitori ad Epson e cercava un modo per inviargli un messaggio – non avevano avuto sue notizie per l’Armistizio.
Decimo giorno. Ci siamo presi un po’ di tempo ieri, per visitare il meraviglioso Parco Nazionale del Gran Sasso e la povera città di L’Aquila che si trova ai piedi del Corno Grande, la montagna più alta d’Italia. La devastazione è ancora molto evidente, otto anni dopo il terremoto del 2009, con gran parte dell’area centrale ancora isolata, e l’aria piena di polvere e il suono di trapani e gru. Ci vorranno anni ancora prima che la città sia completamente restaurata.
Purtroppo, non è stata solo l’Aquila a essere stata colpita dai recenti terremoti, questo ci appariva terribilmente chiaro man mano che il giorno avanzava.
Il nostro primo paese è stato Acquapagana, a circa cinquanta miglia a nord di L’Aquila. Non era segnato sulla nostra roadmap principale, quindi abbiamo commesso l’errore di affidarci al satellitare, che sembrava sicuro che conoscesse la strada. Il risultato è stato di un’ora o più in difficoltà lungo sentieri polverosi e rocciosi, il satellitare ci faceva richieste sempre più isteriche di “girare quando possibile”, anche se su indicazione dello stesso eravamo arrivati li. Un contadino burbero, dall’alto del suo grande trattore, alla fine ci ha rimesso sulla via, con molti gesti delle mani e molti scuotimenti della testa, e siamo tornati indietro alla “strada principale”, che nonostante fosse “principale” era poco più larga della macchina.
Alla fine arrivammo al paese, uno di una serie di piccoli paesi in una lunga valle fertile ai piedi del Monte Cavallo. Un’abbazia in rovina ci diede il primo indizio: case moderne abbandonate, cumuli di macerie dove un tempo c’erano case antiche; case di legno per i terremotati in attesa di ricostruzione o come abitazioni semipermanenti per i senza dimora – ecco un altro paese terremotato, la sua condizione non pubblicizzata dai media, la vita ormai spremuta dalle forze della natura.
Papà passò la notte del 31 ottobre 1943 qui vicino, insonne dopo un difficile incontro con una Guardia forestale di stampo fascista. Lui e Charlie devono essersi incontrati con un altro fuggitivo, così papà ebbe notizie degli amici di Fontanellato. Dormivano in compagnia di un gruppo di “carbonari”, lavoratori itineranti che vivevano nella foresta e bruciavano legna per fare carbone per i fuochi dei vicini.
Quindici miglia più avanti, ai piedi dei monti Sibillini, c’era la prossima tappa di papà, Ancarano, dove ebbe un’altra povera notte dopo una “lunghissima marcia”. Avevano deciso di attraversare il paese per recuperare un po’ di tempo e si ritrovarono bloccati nelle foreste di faggi dove era difficile muoversi, senza cibo e solo la compagnia di alcune pecore per il calore:  Gatenby “dormiva come un tronco, ma le sue condizioni erano incredibilmente sudice e il fetore era qualcosa di terribile”.
Anche qui il villaggio sembrava quasi deserto, cumuli di macerie che segnavano case un tempo piene di vita, poche case intatte ma chiuse e inanimate. Qualche chilometro più avanti, in un’ampia pianura circondata da montagne, ci imbattemmo nella piccola città murata di Norcia, colpita da un terremoto solo l’anno scorso, le sue antiche mura spezzate in molti punti e una bella chiesa nella piazza principale ora solo una facciata in mezzo a un mare di pietre rotte. La città è famosa per gli alimenti di suino, e una o due bancarelle temporanee sono state aperte per vendere carne a coloro che sono rimasti e ai gruppi di turisti, che venivano in questo posto per guardare e scuotere la testa tristi e impotenti.
La nostra speranza per una fine più allegra della giornata fu Pescia, alla fine di una pista di quattro miglia accanto a un ruscello in una valle graziosa e stretta che si snodava tra i pendii dorati dell’autunno. Ma la piccola piazza era circondata da piccoli cumuli di macerie e popolata solo da diverse famiglie di gatti randagi. Alcune case erano intatte, ma la maggior parte sembrava vuota adesso.
Potevamo sentire solo il rumore del torrente attraverso il lavatoio originale di fronte alla chiesa – dove abbiamo attaccato la nostra lettera di ringraziamento, e lasciato il villaggio ai suoi abitanti spettrali.
Undicesimo giorno. Cesaprobaè un grande paese abitato ai margini occidentali della catena montuosa del Gran Sasso. Alle 10 di sabato mattina c’erano pochi segni di vita, ma quelli che si manifestavano ci davano degli sguardi un po’ curiosi, identificandoci rapidamente come “estranei”.
Ci siamo resi conto che, per papà e Charlie, questa doveva essere una preoccupazione costante, nelle campagne molto più popolate di oggi: papà è stato descritto, lasciando Fontanellato, da uno dei suoi amici, “come un inglese mal travestito da italiano”.  Sia papà che il suo amico stavano zoppicando pesantemente, papà aveva un tallone molto dolorante, solo Charlie parlava un poco di italiano con un forte accento della Nuova Zelanda.
Sentendoci un po’ imbarazzati, abbiamo deciso di andare avanti quando abbiamo individuato una piccola chiesa con la porta aperta. Abbiamo lasciato la nostra lettera di ringraziamento all’interno della porta e stavamo andando via quando siamo stati fermati da tre donne locali, che ci hanno guardato con curiosità e hanno detto “Buon giorno” con un preciso punto interrogativo alla fine.
Abbiamo raccontato loro la nostra storia e, dopo i soliti momenti di incomprensione – “Allora voi siete Tedeschi?”, “Tuo padre viveva qui intorno?” ecc. – Presto diventammo amici e ci trovammo al centro di una crescente folla di persone: i commercianti del mercato che allestivano le loro bancarelle, il prete, le madri con i loro bambini e diversi cani. Era tutto molto allegro – gente così amichevole, italiana, appassionata di “famiglia”, naturalmente e, nel nostro caso, felice di essere elogiata e ringraziata per una volta di qualcosa che è accaduto durante la guerra.
Guidando verso sud, siamo entrati in una zona più industriale, più trafficata erano i paesi vicini all’Aquila, anche per i due fuggiaschi i pericoli crescevano di conseguenza vicino ad una città grande. Il territorio li aveva costretti a scendere dalle colline velocemente, per attraversare la strada principale e la linea ferroviaria fino a Roma dalla costa orientale. Trovammo il ponte allora molto sorvegliato che, secondo il diario di papà, avevano dovuto aggirare, e il posto dove strada e rotaia si avvicinavano dove loro furono in grado di correre tra i convogli dell’esercito tedesco.
Proprio mentre uscivano da questa zona, risalendo verso le colline, si imbatterono in un paese dove, per la prima volta in quasi due mesi, fu loro rifiutato cibo o riparo di qualsiasi tipo, e così furono costretti passare una notte sulla montagna.
A Lucoli, un altro villaggio per lo più deserto che si sviluppava pittorescamente sul fianco di una collina, la notte dopo trovarono una “ricovero ragionevole”, papà era dolorante per il calcagno. Poi, al mattino, iniziarono una faticosa scalata per superare la vetta di 6.000 piedi del Monte Cava che si stendeva tra loro e il villaggio di Corvaro verso il quale si stavano dirigendo, il loro percorso ora li portava  leggermente a sud ovest, speravano di sentire notizie di un altro sbarco alleato a nord di Napoli prima dell’inverno.
Corvaro sembra scorrere giù dalla montagna come lava. La parte vecchia, sostanzialmente distrutta nel terribile terremoto di Avezzano del 1915, è stata in gran parte abbandonata, e il paese si è esteso sulla pianura ai piedi della montagna. Ci fermammo solo brevemente, con l’obiettivo di tornare dopo il fine settimana, ma fummo intrattenuti in conversazione da Cristina, che lavora nel museo locale che voleva sapere chi eravamo e perché eravamo a Corvaro.
“Ah”, ha detto, il suo inglese eccellente dopo un periodo vissuto a Dublino, “la vostra storia mi fa venire la pelle d’oca. Mio nonno era un PoW in Inghilterra – mi piacerebbe sapere dove. Forse puoi aiutarmi a risolverlo?”.
Dodicesimo e tredicesimo giorno. Quando mio padre e il suo compagno Charlie Gatenby arrivarono a Corvaro il 6 novembre 1943, erano entrambi piuttosto ben vestiti. Camminavano in montagna, con poco da mangiare e si fermavano per lo più solo nei fienili per dormire, questo per due mesi. La gamba ferita di Charlie dava problemi, ed entrambi avevano i piedi doloranti, pieni di vesciche e lividi.
Trovarono sulla loro strada un piccolo negozio il cui proprietario, Bernadina de Michelis, li accolse amichevolmente gli diede un pasto di prosciutto e pane, un bicchiere di vino e un pacchetto di sigarette. Quando suo marito Peppino arrivò dai campi, decisero che potevano passare la notte con il cavallo di famiglia, in un magazzino di grano nel seminterrato posteriore della casa, il piano superiore era anche la casa della coppia e dei loro cinque figli .
Ma il mattino seguente mio padre aveva la febbre e Bernadina insistette per mandare uno dei bambini a prendere il dottore. Influenza o possibile polmonite fu la diagnosi, e papà fu messo a terra e sottoposto ad un ciclo di iniezioni estremamente dolorose, somministrate da uno dei giovani, fino a quando non si riprese.
Papà esortò Charlie a continuare da solo, nel caso in cui fosse nevicato per l’inverno, ma il neo zelandese non se ne andò senza di lui. Certo, pochi giorni dopo, nevicò pesantemente e i due uomini dovettero convincersi che non sarebbero stati in grado di fare ulteriori progressi verso sud per settimane, se non mesi. Le loro speranze di essere a “casa per Natale” erano perse.
La famiglia de Michelis non girò la testa, nonostante il fatto che la consistente guarnigione tedesca di Corvaro fosse letteralmente a settantacinque metri lungo la strada. Gli uomini furono rinchiusi in un piccolo fienile sul retro di una casa vicina e, non appena Papà si fu sufficientemente ripreso, furono poi spostati di nuovo in un piccolo capannone di pietra in un profondo canyon boscoso chiamato Valle dei Banditi, a circa cinque miglia da Corvaro. Altri tre fuggiaschi li raggiunsero, e Peppino e suo figlio Toto portarono gli uomini a rifornirsi occasionalmente, sotto il naso dei tedeschi, in un carro trainato da un cavallo il cui conduttore si era addormentato.
E lì rimasero. Fuori otto metri di neve per terra.
Settantaquattro anni dopo, Helen e io trascorremmo gli ultimi due giorni del nostro viaggio con tre nipoti di Peppino e Bernardina, Santino, Biancamaria e Giuseppe, la loro madre Lilia e i loro otto figli. È difficile descrivere i miei sentimenti mentre trascorrevo del tempo in compagnia di una famiglia alla quale, letteralmente, devo la vita. Siamo in contatto da alcuni anni e abbiamo già visitato Corvaro un’altra volta, ma il sentimento persiste: questo legame fa parte della mia famiglia e che noi siamo parte della loro.
Con i loro bambini riuniti in giro, raccontammo di nuovo la storia, di Peppino e Bernadina, di Leslie e Charlie, e gridammo ricordando il coraggio, la determinazione e la scoperta di tutto questo.
Ci mostrarono il negozio dove Bernadina diede il pane e il prosciutto, e la cantina dove gli uomini dormivano con il cavallo, e il magazzino dei cereali dove li nascosero quando i Tedeschi li andarono a chiamare; salimmo nella Valle dei Banditi dove gli uomini passarono i due mesi seguenti, tagliando legna da ardere e camminando sulla collina per riscaldarsi; ci chiedemmo quanto fosse vicina la guarnigione tedesca; e parlammo del parroco Don Filippo Hortense che esortò la sua comunità a ricordare la parabola del buon samaritano – con la conseguenza che i parrocchiani si occuparono di oltre 100 ex-PoW a Corvaro in quell’inverno.
Abbiamo anche ricordato la morte recente di Toto, che mio padre ricordava, da piccolo, seduto sulle sue ginocchia durante un’incursione aerea alleata e mangiava le pipette di menta dalla scorta illimitata di papà; e abbiamo incontrato Luigina, la vivace sorella di 87 anni di Toto, che ha ricordato prontamente come papà amasse giocare con i bambini, e le ha dato la sua prima lezione di inglese al tavolo della cucina, e come Peppino dovette gettare le carte rapidamente nel fuoco quando un soldato tedesco bussò alla porta.
Ricevemmo un’accoglienza della municipalità al museo locale, che ospita gli spettacolari manufatti di un tumulo del IX secolo AC, e lasciammo un’intervista alla stampa locale.
E abbiamo parlato e parlato e, quando Gianna, il partner romano di Giuseppe, non poteva più interpretare, abbiamo semplicemente agitato le nostre braccia e appena parlato un po’ più forte! E, naturalmente, abbiamo mangiato montagne della deliziosa pasta di mamma Lilia e le sue deliziose torte. Sono stati due giorni meravigliosi, e odiavamo dire addio e dirigerci verso l’aeroporto.
Grazie per aver letto questo blog. Potresti essere interessato a sapere che ho già ricevuto quasi venti risposte alla “lettera di ringraziamento” che abbiamo lasciato nei paesi che abbiamo attraversato, e si spera che questi generino un maggiore interesse per la straordinaria storia di come innumerevoli poveri agricoltori italiani e la gente abbiano aiutato a salvare le vite di migliaia di prigionieri alleati.
Torneremo in Italia a novembre, per seguire l’ultima tappa del percorso di mio padre, ad Anzio, dove sperava di ricongiungersi alle forze alleate mentre combattevano per assicurare la testa di ponte contro gli implacabili attacchi e bombardamenti tedeschi.
Cercheremo di dare un senso agli enormi rischi che gli uomini hanno preso mentre attraversavano le linee e i campi minati tedeschi e americani, e penseremo a un’altra famiglia, gli Elfer, che erano nel negozio di Bernadina quel primo pomeriggio quando papà e Charlie scesero dalla montagna, altra famiglia a cui mio padre doveva la sua vita e al quale devo la mia stessa esistenza.
Quattordicesimo giorno. Mio padre arrivò nel piccolo villaggio di Corvaro, ai piedi delle montagne abruzzesi a circa sessanta miglia a est di Roma, nel novembre del 1943. Lui e il suo compagno, il neozelandese Charlie Gatenby, chiesero rifugio dalla famiglia de Michelis e si accamparono nel seminterrato insieme al cavallo di famiglia, con l’intenzione di alzarsi presto la mattina dopo. Ma mio padre prese la polmonite. Chi lo ospitava, Bernardina de Michelis, insistette perché rimanesse fermo fino a quando non si fosse ripreso e i due fuggitivi furono trasferiti in un piccolo fienile vicino. Nel giro di pochi giorni, le prime nevi dell’inverno iniziarono a cadere, e gli uomini si resero conto che non sarebbero stati in grado di compiere ulteriori progressi verso sud verso le linee Alleate per qualche tempo a venire.
Con una guarnigione tedesca a meno di 100 metri dalla proprietà de Michelis, era evidentemente impossibile per gli scampati rimanere dove si trovavano, così il marito di Bernadina, Peppino, li guidò su per le colline, verso una piccola capanna di pietra nella vicina “Valle dei banditi “. Qui rimasero mentre la neve cadeva, a Natale e nel nuovo anno, dividendo il loro rifugio cadente con altre tre persone che si erano rifugiate nell’area per l’inverno.
Mentre passavano le giornate tagliando legna per il fuoco e giocando a carte, si incontrarono con due giovani ebrei partigiani di Roma, Eugenio Elfer (25 anni) e sua sorella Silvia (19). Erano venuti a Corvaro con i loro genitori per sfuggire alla persecuzione tedesca degli ebrei nella capitale. Questi due, e lo spasimante di Silvia, un personaggio un po ‘misterioso chiamato conte Carlo Tevini, si offrirono di guidare i fuggitivi attraverso le linee alleate a sud di Napoli, non appena le nevi si fossero sciolte e sarebbero stati sicuri.
Poi, alla fine di gennaio, arrivò l’eccitante notizia che gli americani e gli inglesi erano sbarcati ad Anzio, a venti miglia a sud di Roma, e solo pochi giorni dopo marciavano da Corvaro, attraverso le cime dei monti Simbruini. Ci furono incontri affrettati con i partigiani locali, e la decisione fu presa a sud senza indugio, nella speranza di arrivare ad Anzio e raggiungere le linee alleate prima che i tedeschi potessero coprire l’area con le loro truppe per combattere le forze d’invasione.
Dopo un veloce addio alla famiglia de Michelis, Charlie e papà distrussero la capanna del pastore e partirono con Elfers e Tevini il 28 gennaio 1944, con diversi metri di neve, per il vicino Rosciolo. Papà era ostacolato da problemi di pancia, che richiedevano frequenti soste nel freddo glaciale.
Ma il sole splendeva per loro, come per noi, mentre guidavamo verso Rosciolo, arroccato su una collina sopra la Valle di Porclaneta. Ci fermammo nella piccola piazza principale e girovagammo per le strade silenziose e strette, osservando incuriositi i pochi anziani locali che non lavoravano o erano occupati a casa. La “Chiesa degli Abruzzi” con i suoi meravigliosi affreschi, visitati dall’ultimo Papa, era aperta per la pulizia, così siamo entrati dentro.
Tornati in macchina, siamo tornati verso l’ampia valle. Le strade erano trafficate, con con veicoli da l’Aquila, Avezzano e Roma. Nel 1944, queste strade dovevano essere affollate di convogli tedeschi, che portavano le truppe verso le spiagge di invasione ad Anzio. Per ridurre il pericolo di essere scoperti, papà e gli altri marciavano di notte, divisi in due gruppi, che correvano per le strade quando c’era una pausa nel traffico, diretti a sud per la città di Tagliacozzo, a 3000 metri di altezza sulle montagne.
Nell’aria frizzante del tardo mattino, girovagammo per la piazza della città piuttosto barocca, quasi aspettandomi che un’aria di Verdi uscisse da una finestra al piano di sopra. Era lunedì, quindi i ristoranti erano chiusi, ma abbiamo trovato quella che sembrava una piccola capanna di legno nascosta in un angolo, dove un cuoco brizzolato grigliava fette di agnello su un’antica cremagliera davanti al caminetto, e suo figlio serviva spesso, vino rosso locale ancora freddo dalla cantina. Lasciando Tagliacozzo per attraversare i monti Simbruini, siamo partiti male. Il satellitare ci ha condotto più volte in un percorso circolare e le mappe di Google hanno fatto lo stesso, solo i cerchi erano più grandi. Li abbiamo quasi lasciati a combattere da soli, ma alla fine, ignorando i loro striduli cori di “Girare quando possibile”, abbiamo proseguito su una corsia improbabile lungo i fianchi del Monte Autore (6.000 piedi), e presto ci siamo trovati su una pista ghiacciata nel bel mezzo di un paesaggio spettrale di scarne foreste di faggi e radure erbose disseminate di piccole rocce e avvisi che esortavano a “fare attenzione ai lupi”.
Per miglia e miglia, avanzavamo lentamente, mentre il sole iniziava a tramontare, verso Vallepietra– la Valle delle Pietre. È stato un viaggio incalzante, e ci siamo fermati più volte, atterriti al pensiero di come poteva essere stato farlo a piedi, con parecchi metri di neve con vestiti inadeguati, con la paura costante di imbattersi in una pattuglia tedesca. I fuggitivi impiegarono due giorni interi, con una notte in mezzo passata in una grotta in qualche luogo vicino alla cima del passo, prima che incontrassero il paese. Era quasi buio quando parcheggiammo la macchina ai piedi di uno stretto vicolo che portava tra una massicciata di case e la piccola Piazza Marconi. Persino Heli ed io, nella nostra confortevole auto e nei nostri caldi cappotti, ci sentivamo sollevati di aver raggiunto di nuovo la civiltà.
Abbiamo trovato un piccolo paese immacolato, preparato per l’inverno, pile di tronchi pronti per il fuoco e con rifornimenti freschi di birra e grappa caricati nell’accogliente caffetteria. Sulla piazza, un’antica campana suonava l’ora da una torre medievale, come aveva fatto per secoli, e le luci apparivano magicamente nelle finestre che davano sulla piazza mentre la sera si avvicinava e gli uomini entravano dai campi per cena. Era solo senza tempo e completamente accattivante. Per papà e i suoi amici, deve essere sembrato un paradiso.
Quindicesimo giorno. Mio padre rimase impressionato da Vallepietra aveva annotato sul suo diario «Paese eccellente, buon letto», lunedì 31 gennaio 1944, e fu sollevato di ricevere anche qualche medicina per il suo stomaco. Ma le sue speranze di dormire sonni tranquilli si infransero quando fu svegliato dopo la mezzanotte con la notizia che i tedeschi stavano cercando i fuggiaschi nel paese, e lui e gli altri dovettero lasciare i loro letti di corsa e nascondersi lontano dalla casa dove stavano.
Il giorno successivo fecero comunque buoni progressi lungo il valico roccioso verso la grande città di Piglio, che si trova di fronte a un profondo burrone. Nel tardo pomeriggio, avvistarono una pattuglia tedesca che veniva verso di loro lungo il sentiero: era troppo tardi per sottrarsi all’azione, così proseguirono, cercando di sembrare il più possibile italiani, e la pattuglia li superò senza incidenti.
Prima di arrivare a Piglio, in cima a una collina che dominava la città, si fermarono al convento di San Lorenzo, dove furono accolti dai monaci che gli dettero da mangiare e un letto per la notte. Per papà, il convento era forse una fortuna complicata perchè “pensava che il monaco non avrebbe mai smesso di parlare”! Il loro sonno fu disturbato dal rumore di un violento combattimento dalle spiagge di Anzio, dove si stavano dirigendo.
Abbiamo chiamato il convento stamattina, le sue pareti gialle color ocra si sono scaldate al sole e abbiamo incontrato uno dei tre monaci francescani che vivono ancora lì. Gli mostrammo la nostra lettera di ringraziamento e per un momento sembrò piuttosto sopraffatto. Ci mostrò la cappella a cupola che risuonava, e la minuscola grotta nel terreno dove un tempo viveva un antico monaco. Poi ci lasciò per guardarsi intorno, e io mi sedetti in silenzio nella chiesa e accesi candele che bruciavano luminose nell’ombra. Più tardi, abbiamo parlato con una suora in visita dal Nord Dakota, che ha ascoltato con gentilezza la nostra storia e ha offerto un medaglione e una preghiera.
Dopo una solida colazione, papà ei suoi compagni fecero una partenza notturna, muovendosi furtivamente in discesa verso il fondovalle verso Anagni, ma fermandosi a riposare per la notte nella capanna di un pastore, dove furono di nuovo disturbati da un pesante fuoco d’artiglieria dalla testa di ponte .
Ormai erano a una decina di chilometri dalla linea del fronte, in una zona rurale collinosa che doveva essere stata piena di soldati mentre il comandante tedesco Kesselring si affrettava a costruire le sue difese dopo gli sbarchi a sorpresa ad Anzio. Avevano una strada principale da attraversare e una linea ferroviaria, prima di sistemarsi in un’altra capanna da pastore vicino alla cittadina di Segni, distesa su una desolata collina.
Avvicinandoci alla fine del nostro lungo viaggio, ci siamo sentiti in uno stato d’animo leggero e abbiamo attaccato la nostra lettera di ringraziamento alle enormi porte di legno all’ingresso della parte vecchia della città. Poi andammo a ovest, nel crepuscolo, verso un cielo macchiato di rosso sopra la spiaggia di Anzio, e la grigia città di Norma si stabilì su un promontorio sopra il campo di battaglia che papà, Charlie, i due giovani Elfer e Tevini dovettero attraversare per raggiungere la salvezza.
Sedicesimo giorno. Oggi abbiamo percorso duecento chilometri a nord di Roma per visitare una famiglia che vive vicino a Firenze. Era molto lontano dal nostro percorso – ed era tutto per una ragazza di quindici anni e per il suo incontro con un inglese fradicio ed affamato.
Solo una settimana prima di partire per la tappa finale del nostro viaggio, ho ricevuto una email da Daniela Bergamaschi, che mi ha detto che sua madre Angiolina, che era andata a visitare la tomba di suo marito vicino a Verghereto nell’Alpe di Serra con la sorella di Daniela Flaviana, avevano chiacchierato con gli amici del posto e le avevano raccontato di una delle nostre “lettere di ringraziamento”, che avevano trovato appuntate su un albero vicino a casa loro.
Angiolina insistette per dare un’occhiata all’avviso e riconobbe immediatamente la foto di mio padre come il giovane che era apparso a casa dei suoi genitori nell’ottobre del 1943, chiedendo cibo e riparo. Descriveva il suo aspetto fradicio e spettinato. Appena i suoi genitori lo portarono in casa si asciugò i vestiti gli diedero  da mangiare, e poi gli offrirono un letto per la notte. Il giovane aveva rifiutato il letto, volendo creare il minimo problema possibile, e forse per poter fare una fuga veloce, se necessario, e invece aveva voluto dormire su una sedia accanto al fuoco. La mattina dopo, dopo una colazione a base di pane e latte caldo, e copiosi saluti, Pietro, il capofamiglia, gli mostrò la strada migliore da percorrere per la prossima tappa del suo viaggio.
Devo confessare che, quando ho letto per la prima volta la email di Daniela, avevo delle riserve. Mio padre non viaggiava da solo, ma con il pilota della RAF Reg Dickinson e il loro nuovo amico Kiwi Charlie Gatenby. E pensavo che fosse improbabile che sua madre riconoscesse il volto del giovane che trascorse una notte nella sua casa 74 anni prima. Ma poi ho guardato di nuovo il diario.
Il 22 ottobre 1943 i tre uomini stavano attraversando una strada principale nei pressi di Verghereto, un paese sulla strada principale vicino a Bagna di Romano. Era occupato con convogli di truppe e traffico locale, e decisero di dividersi e fuggire, ognuno per conto suo.
In qualche modo, nella loro ansia di evitare di essere catturati, si separarono e mio padre si ritrovò solo. Aspettò un po’ e alla fine decise di avanzare da solo. Con l’oscurità che cadeva, non c’era ancora nessun segno degli altri due, e aveva bisogno di un riparo. Reg aveva la mappa, quindi non aveva idea di dove fosse, ma vide una fattoria isolata sul fianco della collina e decise di rischiare e bussare alla porta.
Potrebbe essere che la porta che scelse fosse a Madioce, la casa di Angiolina, una ragazza di quindici anni e i suoi otto fratelli e sorelle, i figli di Pietro e Benilde Bragagni. Avendo passato il pomeriggio con Angiolina e le sue due figlie, ancora brillanti come un bottone nel suo 89esimo anno, non ho dubbi che lo fosse.
Il padre di Angiolina, Pietro, era un mezzadro, che pagava l’affitto al suo padrone di casa sotto forma di una grande porzione del raccolto. La famiglia doveva vivere con quello che rimaneva. E’ stata una vita difficile, e spesso rimanevano senza raccolto. Durante l’occupazione nazista, le cose andarono molto peggio. Soldati e sostenitori fascisti locali venivano a casa e prendevano ciò che volevano. Benilde avrebbe tenuto lontane le ragazze, per ogni evenienza. Un giorno i soldati tedeschi minacciarono di prendere Pietro se non gli avesse dato più cibo, ma il futuro marito di Angiolina, Sisto, li convinse che era pazzo e se ne andarono.
Diversi ex-PoW e disertori dell’esercito italiano vennero a casa a chiedere del cibo, ma mio padre fu l’unico a cui venne dato rifugio. Tutta la famiglia capì il rischio che stavano prendendo, ma “non ci pensammo due volte” disse Angiolina. “Il pover’uomo, sapevamo che dovevamo aiutarlo. E ora ecco che suo figlio viene per ringraziarci. Ecco perchè.”
Mi sono seduta accanto ad Angiolina al tavolo della cucina mentre lei raccontava la sua storia, proprio come mio padre aveva fatto a Madioce tutti quegli anni prima. Ogni tanto mi metteva una mano sul braccio e mi scrutava in faccia, come per verificare che io fossi reale, e non qualche fantasma del passato – che, in un certo senso, ero. Era un pomeriggio così felice – e tutto grazie a una ragazza di quindici anni, un inglese fradicio e affamato, e una lettera appuntata su un albero!
Diciasettessimo giorno. Mentre mio padre e Charlie guardavano Anzio dalla vasta pianura delle paludi pontine verso Anzio dalla cima di Norma, il 6 febbraio 1944, dovevano aver realizzato con un senso di profondo presagio che stavano per calpestare un nido di vespe.
Sperando di rimanere dietro le linee difensive più meridionali tedesche (di cui Monte Cassino faceva parte), la flotta di invasione di 370 navi per gli sbarchi ad Anzio / Nettuno (Operation Shingle) ancorò silenziosamente al largo delle spiagge alla fine del 22 gennaio e, alle 2 del mattino, il giorno seguente, il primo mezzo da sbarco si diresse a riva mentre un massiccio bombardamento da parte delle navi da guerra alleate in mare si schiantò contro la città.
I tedeschi furono presi completamente di sorpresa e, al calar della notte, c’erano più di 36.000 soldati alleati sulla spiaggia diretti nell’entroterra. Ma nel giro di un giorno circa i difensori si erano affrettati a mettere in campo più di 40.000 soldati, ed era iniziato un costante bombardamento sulla testa di ponte degli alleati.
Da allora in poi i combattimenti furono da incubo, in condizioni di freddo gelido, e con nevischio e neve costante che trasformavano la terra in un mare di fango. L’espansione della testa di ponte e dell’eventuale breakout da solo divenne una lotta aspra e livida durante la quale morirono oltre 7.000 soldati alleati e 36.000 furono feriti o dispersi.
Più di 300.000 soldati da entrambe le parti combatterono, con intensità pressoché impareggiabile, sopra le sole sedici miglia di fronte, sotto il costante bombardamento dal mare e dall’aria sul lato alleato, e dalle alture delle Colline Alban appena a est di Roma dai tedeschi. Dovevano essere tre mesi prima che la capitale, a sole venti miglia di distanza, potesse essere liberata.
Le truppe alleate precipitano a riva.
Oggi c’è poco segno della devastazione della città in tempo di guerra. Le ville sdolcinate lungo il lungomare elegantemente ricurvo sono state tutte ricostruite, e solo le macabre foto in bianco e nero di cumuli di macerie e edifici anneriti ammassavano il rapinatore nel piccolo museo sulla testa di una spiaggia per dare un senso a tutto quello che doveva essere.
Rimangono le silenziose croci bianche, migliaia e migliaia, disposte in ordine sui prati perfetti del cimitero militare americano dello sbarco della Sicilia a Nettuno, o le rose gialle autunnali e gli epitaffi malinconici incisi sulle semplice lapidi nel cimitero della spiaggia inglese, appena fuori Anzio.
Diciottesimo giorno. Papà e Charlie aspettavano nervosamente la notte a Norma con le loro tre guide partigiane. Appollaiati su una scogliera rocciosa in alto sopra il paesaggio a scacchiera delle paludi pontine, hanno trascorso la giornata studiando una mappa abbozzata delle posizioni tedesche data loro da un partigiano locale, e lavoravano a delineare una rotta verso la linea americana attorno alla stretta testa di ponte di Nettuno.
Heli e io ci sedemmo in un bar in Norma, guardando la stessa scena. La città dietro sembrava una specie di posto occupato, un po’ malandato, il suo unico pregio è la sua posizione sopra la pianura, un grazioso giardino alla base della roccia e una vicina fabbrica di cioccolato. La costa di Anzio era appena visibile in lontananza, una spruzzata di luccichio sul bordo estremo della palude.
Le paludi furono prosciugate da Mussolini negli anni ’30, come parte di un massiccio piano di creazione di posti di lavoro e di lotta alla povertà che ha portato decine di migliaia di uomini e donne disoccupati, molti dei quali veterani della Grande Guerra, giù dal nord dell’Italia per istituire in nuove, piccole fattorie sulla ex-palude. L’area è attraversata da una rete di canali e strade diritte strette fiancheggiate da fossi che delimitano le piccole fattorie chiamate “poderi”, ciascuna (originariamente) con il proprio numero identificativo dipinto sul lato. Attraverso il centro che corre da est a ovest è l’ampio “Canale Mussolini”, mentre da nord a sud corre la Via Appia da Roma a Napoli.
Nel febbraio del 1944, l’intera area brulicava di soldati tedeschi, alla disperata ricerca di respingere gli alleati in mare. In alto, il fuoco dell’artiglieria pioveva sulle spiagge dei Colli Albani a sud-est di Roma  il fuoco che veniva restituito con puntualità dalle navi da guerra in mare.
I cinque fuggiaschi partirono all’imbrunire del 6 febbraio, avviandosi tra la parte rocciosa di Norma e poi attraverso la pianura. La luna si era alzata, aumentando il pericolo che fossero visti, stagliati contro il paesaggio innevato, così furono costretti a proseguire strisciando dentro a dei fossi pieni di neve e a correre per le strade a due a due, con l’attenzione al rumore di una pattuglia tedesca e con lo sfondo del costante rumore delle armi lontane.
Attraversando la Via Appia, con il canale a mezzo miglio di distanza alla loro destra, si trovarono improvvisamente in un campo minato tedesco. Charlie aveva avuto una certa esperienza nella posa delle mine e guidò il gruppo che proseguì carponi, ciascuno aggrappandosi alla caviglia di quello davanti.
Faceva un freddo pungente e, dopo diverse ore di progressi dolorosamente lenti e pieni di paura, avevano ancora tre miglia per raggiungere la linea americana. Dopo un confronto sussurrato, con sfiducia, decisero fatalmente che la loro unica speranza consisteva nel fare una pausa lungo la strada.
Non appena si alzarono in piedi, furono avvistati da una pattuglia tedesca. Una mitragliatrice mandò una raffica di proiettili lungo la strada verso di loro. Davanti, Eugenio e Carlo Tevini scesero, mentre papa si gettò in un fosso. Charlie, con Silvia, fece lo stesso dall’altra parte della strada.
Quando alla fine il fuoco cessò, Charlie attese nel silenzio, poi avanzò lentamente lungo il fosso fino a dove un corpo giaceva immobile. Trovò Tevini, che sanguinava pesantemente da ferite da arma da fuoco nel petto e chiaramente morto o morente, di Eugenio non c’era traccia.
Silvia voleva stare con Tevini e cercare suo fratello, ma papà e Charlie erano fermamente convinti che questo avrebbe significato una morte certa, e che l’unica soluzione era quella di continuare con loro, per cercare di raggiungere le linee americane.
Decisero di aspettare che la luna tramontasse, quindi ci sarebbero state meno possibilità di essere visti ma, appena lo fece, si aprì un nuovo bombardamento delle spiagge. Aspettarono di nuovo, e poi alla fine incominciarono a gattonare dolorosamente in avanti.
I minuti passavano come giorni mentre strisciavano avanti. Per due volte sono stati individuati e oggetto di spari, due volte sono rimasti immobili nel fosso fino a quando non hanno ritenuto che fosse possibile muoversi di nuovo. Ogni volta che si fermavano, esausti, discutevano se dovevano arrendersi.
Un tumulo apparve davanti a loro, probabilmente un mucchio di detriti dall’originale bonifica del canale. Si arrampicarono, per avere una visione di ciò che stava al di là e un senso di quanto dovevano andare lontano.
Una mitragliatrice cominciò a sparare proiettili. Charlie fu colpito al braccio, poi Silvia gemette e cadde all’indietro, stringendosi la gola. Papà urlò e urlò perché gli spari cessassero. Una voce americana risuonò – “mostrati, mani in alto”.
La lunga camminata di mio padre da Fontanellato era finita, ma in circostanze tragiche, con Eugenio scomparso, Tevini apparentemente morto, e Silvia terribilmente ferita.
Diciannovesimo giorno.  Silvia fu portata all’ospedale americano da campo per un intervento chirurgico d’urgenza, ma non ha mai ripreso conoscenza ed è morta il mattino successivo. Il primo dovere di mio padre come soldato libero, ad Anzio, fu organizzare il suo funerale il giorno dopo.
Anche Eugenio morì, colpito dai proiettili sparati dalla pattuglia tedesca sulla palude pontina. Al suo corpo fu data una sepoltura temporanea nel fosso dove cadde, e lì sarebbe potuto rimanere per anni, se la sua tenace madre Elisa non avesse avviato una ricerca per suo figlio dopo la fine della guerra. Avendo saputo che un cadavere era stato sepolto in un fosso all’incirca nello stesso periodo in cui suo figlio era scomparso, ha chiesto con successo che il corpo fosse riesumato e, con l’aiuto di mio padre e Charlie e dei documenti che aveva in dosso, fu in grado di dimostrare che il corpo era davvero quello di suo figlio.
I corpi di entrambi i suoi figli furono poi riportati a Roma, per essere sepolti insieme a suo marito – che era morto quasi subito dopo aver saputo che i suoi figli erano stati uccisi.
Volevamo provare a trovare il punto in cui morì Eugenio, e in effetti fu abbastanza facile seguire il percorso approssimativo delle vie di fuga possibili percorse perché la geografia di base della palude è cambiata poco nel corso degli anni. Sapevamo anche che il suo corpo era stato inizialmente sepolto vicino al “Podere 355 nel villaggio di Borgo Podgora”.
Girammo per ore, cercando di trovare la fattoria. Uno o due poderi portano ancora i loro numeri originali con stampini, ma la maggior parte è stata modernizzata e ridipinta, o demolita e sostituita. Abbiamo chiesto e abbiamo guardato, senza successo. Poi, mentre tornavamo a Frascati in luce sbiadita, sentendoci piuttosto frustrati, passammo davanti a una farmacia e Heli disse: “Probabilmente parlano inglese. Chiediamo loro “.
Entrammo. Con un mix di inglese, italiano e molto agitare di braccia, abbiamo spiegato la nostra ricerca. “Momento”, disse la signora dietro il bancone, e si precipitò di sopra. Attendemmo, non abbastanza sicuri di cosa stesse succedendo. Alla fine tornò, con un uomo anziano che ci ha guardato stupito. “Sono Benito, Podere 355”, disse.
Qualche minuto dopo eravamo alla fattoria, guidati dal nipote Giampaolo e dalla figlia Giulia, che parlava inglese. Benito aveva tre anni quando gli Alleati sbarcarono ad Anzio e non seppe nulla della scoperta del corpo di Eugenio nel fosso. “Sarebbe stato mio padre Umberto a trovarlo,” disse. “Ma ho una sorella maggiore, le chiederò. Mio padre fu tra i primi inquilini ad occupare uno dei poderi, ed era così grato a Mussolini che chiamò tutti i suoi figli con i nomi dei membri della famiglia del Duce, “disse Benito, con un sorriso ironico.
Siamo andati via, naturalmente contenti di aver trovato il Podere 355 e, in effetti, di aver trovato dei deliziosi nuovi amici. Ma siamo stati presi anche da pensieri su quello che era successo a Eugenio e sua sorella Silvia, tanti anni prima – e sull’effetto che le loro morti avrebbero dovuto avere su mio padre per il resto della sua vita.
E c’era un ultimo mistero.
Nell’estate del 1944, lavorando con l’esercito neozelandese a Roma, un giorno Carlo stava passando per la scalinata di Piazza di Spagna quando rimase stupito nel vedere, camminando verso di lui, nientemeno che Carlo Tevini, splendente in una divisa dell’esercito italiano. Disse a Charlie come era stato raccolto dai tedeschi dopo le riprese e portato al loro ospedale da campo, dove alla fine si era ripreso dalle sue ferite mortali. Lo avevano interrogato per alcune settimane, ma poi, ha detto, quando Roma fu liberata dagli Alleati nel giugno del 1944, fu rilasciato.
Charlie rimase in contatto con Tevini per un po’ dopo la guerra, e ricevette notizie sul suo matrimonio e sulla nascita di un figlio. Ma poi non ne ha più sentito parlare, e finora non sono riuscito a trovare un collegamento con la famiglia. Ci chiediamo se ha lasciato una traccia dei suoi sentimenti per Silvia Elfer, del suo rapporto con la famiglia Elfer e i partigiani e della sua fuga miracolosa? Potremmo non saperlo mai.
Abbiamo trascorso l’ultima mattina a Roma, vicino alla tomba della famiglia Elfer, nella sezione ebraica dell’enorme cimitero del Verano. La lapide riporta la morte di Antonio, il padre, e dell’eroico sacrificio fatto dai suoi due figli. Elisa, “una donna forte e saggia, madre eroica” fu sepolta lì nel 1995 dopo la sua morte, alla grande età di 105 anni, avendo vissuto da sola con i suoi ricordi per cinquantaquattro anni dopo la morte dei suoi cari.
Li ricorderemo.
F.to Nick Young


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