“Ab ovo usque ad mala”: DALL’UOVO FINO ALLE MELE LO DICEVANO I ROMANI

by Amministratore
mela zitella del Giardino della Memoria

 

Dalla pianta selvatica alle moderne varietà, il melo ha accompagnato la storia dell’uomo sia come frutto fresco, sia grazie ad alcuni suoi derivati come, per esempio, il sidro e la «apple pie», che è la classica torta di mele americana.Il melo selvatico europeo (Malus sylvestris) è un alberello, spesso cespuglioso, diffuso in tutta Europa, che vegeta ai margini dei boschi e nelle siepi campestri in singoli individui o in piccoli gruppi.Solo raramente riesce a svilupparsi pienamente nella forma arborea: in questi casi può raggiungere una dimensione considerevole, con un’altezza anche superiore ai 10 metri e una longevità di oltre 100 anni. Produce frutti relativamente piccoli (3-4 cm) che a maturità, tra luglio e settembre, sono di colore verde giallastro, duri, aspri e astringenti.Però, se si lasciano sovrammaturare, specie dopo i primi geli autunnali, la loro polpa perde parte dell’astringenza e dell’acidità e diviene dolce e succosa. 

Tutte queste caratteristiche non sfuggirono ai nostri più lontani antenati e così, dai tempi preistorici, il melo ha accompagnato la storia dell’uomo dando vita a diverse usanze e a forti tradizioni nel campo alimentare. 
Le antiche popolazioni europee, dapprima di cacciatori e raccoglitori poi, nel Neolitico (in Europa circa 8-9.000 anni fa), quelle dei primi agricoltori, raccoglievano e consumavano i frutti del melo selvatico insieme a tanti altri frutti polposi, quali quelli di sorbo, corniolo, sambuco e rovo. 
Mentre le popolazioni europee utilizzavano ancora mele selvatiche per produrre il sidro, gli abitanti dell’Asia centrale selezionavano le migliori piante del melo selvatico locale (Malus sieversi). 
A differenza del melo europeo, molto uniforme per le caratteristiche dei frutti sempre relativamente piccoli, duri, aspri e astringenti, i frutti del melo asiatico si distinguono per l’ampia variabilità nella pezzatura (da piccoli a molto grossi), nel colore (da verdi a giallastri e striati di rosso), nell’epoca di maturazione (da luglio a dicembre), nella consistenza della polpa (da succosa a carnosa) e nel sapore, che comunque, rispetto al melo europeo, risulta sempre molto più dolce a maturità. 
Quello che ora coltiviamo come melo domestico è proprio il risultato della selezione iniziata nella preistoria a partire dai migliori meli selvatici dell’Asia centrale dai frutti dolci e molto polposi. Il «significato biologico» dei frutti polposi è quello di favorire la dispersione dei semi in esso contenuti sfruttando l’ingestione da parte degli animali i quali, mangiando il frutto, ne diffondono i semi con le feci.Una ricerca di biologia evolutiva ha recentemente evidenziato come il melo centroasiatico sia co-evoluto con l’orso, quando invece l’evoluzione del melo europeo era avvenuta con il concorso degli ungulati. 
Gli orsi, a differenza di cervi, daini e caprioli, amano infatti il sapore dolce e non hanno difficoltà a ingerire frutti di grosse dimensioni, che anzi prediligono, mentre gli ungulati consumano regolarmente frutti aspri e piccoli, inadatti all’uomo. 
Dall’Asia centrale il melo domestico si è poi diffuso verso Oriente e verso Occidente e arrivò in Persia nel IIΙ secolo a.C., da dove raggiunse la Grecia e quindi l’Italia. 
L’adozione della mela a fine pasto è stigmatizzata dall’espressione latina usata nella Roma imperiale, che poi rappresentava gran parte del mondo allora conosciuto: «ab ovo usque ad mala», ossia «dall’uovo fino alle mele». Oggi diremmo: «dall’antipasto al dolce». 
Quando, attraverso la mediazione romana, le mele domestiche centroasiatiche giunsero in Gallia e in Britannia sul volgere del I secolo a.C., vennero rapidamente introdotte in coltivazione dai contadini di queste regioni celtiche sia per la produzione di frutta da mensa che per la produzione del sidro. 
Rispetto alle mele selvatiche europee, infatti, quelle domestiche centroasiatiche consentivano la produzione di un sidro migliore, tanto per la più elevata pezzatura dei frutti, quanto per la qualità superiore grazie al loro maggiore contenuto in zuccheri e la minore astringenza della polpa. 
I Romani non solo introdussero le mele domestiche nel cuore dell’Europa, ma avviarono anche la coltivazione del melo secondo le tecniche proprie di una frutticoltura molto progredita, in particolare la propagazione per innesto e la potatura, sia di allevamento che di produzione, che loro stessi avevano acquisito in precedenza in Grecia, Siria e Persia. 
La maggior parte delle varietà di melo che troviamo oggi sul mercato sono state costituite nel Nuovo Mondo, specialmente in America e in Nuova Zelanda. Una figura di spicco nella melicoltura americana è quella di John Chapman (1774-1847), detto appleseed «seme di melo», un pioniere la cui «missione» consisteva proprio nel realizzare meleti con piante ottenute da seme quali avamposti della conquista del West, in particolare Ohio, Indiana e Illinois. 
Grazie alla riproduzione per seme, nelle migliaia di ettari piantati da Chapman si manifestò l’enorme variabilità del melo che in Europa non si era mai espressa. Le nuove mele americane giunsero presto anche in Europa, dove furono protagoniste dello sviluppo della frutticoltura nel Dopoguerra. Golden Delicious e Red Delicious (con le sue innumerevoli variazioni clonali: Red Chief, Richared, Starking, Starkrimson, Starkspur, ecc.) furono presto tra le varietà più coltivate anche nelle nostre campagne e così le mele, grazie alla loro versatilità, continuano ad arricchire le tradizioni alimentari soprattutto delle cucine contadine. 
L’estinzione genetica di antiche varietà di melo di origine italiana è dovuta ai grandi circuiti commerciali, sviluppatisi negli anni ’50-‘60, con la conseguenza della perdita di molti genotipi locali e della loro varietà genetica. 
La nostra Associazione sta cercando di ripristinare l’antica coltura di genotipi ormai dimenticati come ad esempio quelli della Limoncella e della Gelata che sono allevati nel Giardino della Memoria di Lucoli insieme ad altre cultivar antiche. Queste specie si adattano meglio agli ambienti locali prevenendo la possibilità di diffondere solo individui geneticamente identici e garantendo un tasso di variabilità più alto. Salvando questi “frutti antichi” è possibile tutelare il patrimonio delle tradizioni locali, proponendo possibili metodiche di controllo delle produzioni ed eventuale diffusione di queste cultivar.

 

Mela Limoncella del Giardino della Memoria

 

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